Maggio 2009 Umanità delle antiche voci
Umanità come dignità della persona, come responsabilità dell’individuo. Ogni cantore,
nella “compagnia” di pellegrini, attinge ispirazione dalla fede, dall’entusiasmo, dalla smania
spirituale e dionisiaca eccitata dalla presenza dei compagni di strada e dal miraggio della meta
del santuario, della convenienza e convergenza comune, e ognuno fa i conti con la propria
personale ricerca e spiritualità, con la valutazione del peccato e del miracolo, dell’errore
(pellegrinare = errare) e della grazia, in una condizione dialettica senza fine, diretta, senza
intermediazioni con l’infinito che ha nome “La Santissima” di Vallepietra o San Cataldo di
Supino, senza internet: il viator e il santo sulla stessa arena, due gladiatori alla pari, con
devozione, risentimento, turpiloquio, irriverenza, ravvedimento, estasi.
“O Sanctissima” e “Vergin Santa” sono due canti popolari, colto il primo (del sec. XVI,
siciliano e presente anche nell’innario luterano) e popolare l’altro, per il “Divino Amore”.
La breve citazione del Magnificat di Terenzi è la risposta giubilante al dolore di una
infermità inflitta senza riparo nella piena giovinezza.
“La Desolata” è il racconto della passione dalla parte della Madre Addolorata. È stata
raccolta da zia Marietta a S. Sebastiano di Supino, sui monti lepini. È antica, come dimostra la
lingua colta che, attraverso i secoli di contaminazione, conserva ancora la struttura aulica degli
endecasillabi.
Presenta una parte cantata e una recitata. Non condivide il pathos umbro del Laudario di
Todi o di Cortona: è piuttosto un breve dramma psicologico ed emotivo di genere (ci
permettiamo) scespiriano, come è dimostrato dall’ultimo distico “Niciuno steva che la
raccolleva, steva Maria i Madalena sola” e da altri frammenti di forte impeto teatrale.
“Gliu Verbo”, anch’esso in endecasillabi, raccolto sempre da zia Maria, veniva cantato da
Rosa Vespasiani, mia madre, durante i temporali, “per quelli che stanno in mare”, così mia
madre nel suo italiano perfetto. È una breve composizione in forma di “Threnos”,
salmeggiante, di contenuto votivo, apotropaico e magico, è una cieca testimonianza di fede

“Verbo so ditto i Verbo voglio dice”, ricevuta e tramandata, secondo la profetica solennità del
Vangelo di Giovanni.
Il Magnificat latino (laziale, regionale, all’amatriciana, all’arrabbiata) per Peppe Bravo è
un omaggio, di tenera barbarie lepina, a Giuseppe Mancini, detto Peppe Bravo (coraggioso,
prepotente) morto nel 1936.
Peppe Bravo era pastore, viveva sempre a Santa Serena di Supino, scendeva solo per S.
Cataldo, S. Antonio e per procreare.
Io l’ho visto quando ero bambino: in piedi, alto, imperativo, con l’orecchino di oro e di
corallo, come potrei immaginare che lo portasse Numa Pompilio per Egeria. Suonava la
zampogna. Abitava la antica capanna con anello nuragico di sassi e copertura vegetale a cono.
Intorno: i fagli lepini, i maiali selvatici, i cani, le pecore, le ieratiche vacche giottesche, la
zampogna. Ogni estate, al solleone, con torva commozione, ritorna nel sacro profumo
dell’elicriso.
Giuseppe da Supino